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Gavi

 
   Periferia di Carrosio e, dopo il ponte della Maddalena, ecco Gavi.
   
 
   
  GAVI
C.A.P.: 15066 - Prefisso teleselettivo: 0143 Altitudine: m 233 s.l.m. -
Abitanti: 4460 (considerevole aumento in estate)
Centro Sportivo Comunale Via Bosio 2 - tel. 643275
Municipio: Via Mameli 52 - tel. 642372/6427
   
 

 Le costruzioni moderne della periferia di Gavi impediscono il colpo d'occhio sul centro storico, posto all'ombra della rocca che appare per prima, formidabile e minacciosa, sul dirupo contro cui s'infrangeva un tempo l'acqua del Lemme.
Dell'ampio terrazzo alluvionale formatosi per i depositi del torrente, si accorsero per primi gli antichi Liguri, che lo abitavano in grotte e capanne. Siamo, grosso modo, attorno al 2000 a.C. e a parlarci di questi primi insediamenti è una accetta in ossidiana nera del periodo neolitico, trovata nel territorio di Gavi.

   
 

Al tempo dei Romani, nello stesso luogo della stazione neolitica, sorse un « pagus » e si chiamò « Gavium », donde il nome di Gavi. I romani dotarono il territorio di una strada per collegare la via Postumia con l'Emilia. La «bretella» partiva da Sottovalle e, correndo lungo la vai Lemme, andava a intersecare l'Emilia nei dintorni di Sezzadio. Della sua esistenza non ci sono prove certe, ma qualche toponimo, come l'Aureliana, dove pare ci fossero i quartieri di un Marco Aurelio non bene identificato, e Basaluzzo, antica colonia romana, confortano l'ipotesi.

   
 
   
 

Dopo i secoli bui dei primo medioevo un punto fermo nella storia gaviese è la Pieve di S. Maria. Sorta forse su un precedente tempio pagano, sul bordo di un terrazzo che strapiomba per tre lati sull'ampia ansa del Lemme, trasformata da secoli in un deposito per legna e attrezzi agricoli, questa singolare chiesetta è priva delle navate laterali, per essere stata inglobata quella di destra, nella casa colonica che la affianca e crollata quella di sinistra. La Pieve, così ridotta alla sola navata centrale e all'abside, è decorata nella facciata da archetti e lesene asimmetrici; la tecnica usata e i materiali impiegati consentono di fissarne la nascita attorno all'anno 1000. Questo luogo di struggente solitudine è a tre chilometri dal paese sulla destra della strada per S. Cristoforo; si faccia attenzione, visitandola, agli strapiombi sul torrente.

   
 
   
 

Se la chiesa di S. Maria ci introduce nella vita religiosa e artistica di Gavi, con i due documenti del 972 e del 973, - con cui il « Vescovo di Genova, Teodolfo, dava in affitto a certi Pietro e Andrea, uomini liberi di Gavi per 29 anni, tutte le possessioni spettanti alla chiesa di S. Siro nei luoghi di Gavi e in località Meriana » e il marchese Lamberto vendeva al presbitero Roprando corti e chiese e il castello di Gavi -, entriamo ufficialmente nella storia e nella vita civica dei borgo. La quale avrà momenti splendidi, come ai tempi del Marchese Alberto degli Obertenghi, che chiude Gavi in una poderosa cerchia di mura e, destreggiandosi abilmente tra le mire dei genovesi e gli opposti appetiti di Tortona e Pavia, riesce a salvarne, almeno fino alla sua morte avvenuta attorno al 1176, una certa autonomia. Ma a lui i gaviesi e gli amatori del bello devono ben altro. Risale infatti all'epoca de! suo dominio l'erezione di S. Giacomo, stupenda chiesa romanica, sorta forse sui resti di un ospizio per i pellegrini diretti a S. Giacomo di Compostella. La chiesa nel 1172 era già costruita. Il 15 agosto di quell'anno, infatti, i Consoli di Alessandria vi giurarono fedeltà ad Alberto marchese di Gavi. D'ora in poi S. Giacomo è il cuore della vita religiosa e civica di Gavi: in essa si radunano a parlamento il popolo e i maggiorenti della città; in essa, nel 1202, Genova e Tortona stipulano un patto per la conservazione delle rispettive strade fino alla Crenna, dove allora, presso la cappella di S. Defendente, era il confine.

   
 
   
 

S. Giacomo ha la facciata in purissimo stile romanico. Si dice che vi abbiano lavorato i Maestri Comacini, i quali si rifornirono di pietre nelle cave alle porte del paese. Certo ci sono in essa, nel portale e nelle figurazioni bestiarie dei capitelli specialmente, certi influssi lombardi, mentre il tiburio a torre al centro dei transetto e le colonne divisorie tra le navate, richiamano alla mente le architetture genovesi dell'epoca. (si veda a questo proposito S. Donato).

   
   
   
 

Il portale, decorato di colonne agilissime e lavorate a trecce nell'arco, ospita sull'architrave l'Ultima Cena. Il Cristo vi appare in mezzo ai Dodici fortemente stilizzati dietro la tavola imbandita con piatti e pesci. Tiene sotto i piedi una figura misteriosa (il demonio? Le forze della materia?) e sul capo due angeli in volo librano le ali spiegate sotto una colomba. Sul colmo dei timpano del portale, scolpita a tutto tondo e protetta da un singolare padiglione cupoliforme, si nota una figura umana (S. Giacomo?) che cavalca un mostro; altri mostri compaiono sotto le mensole degli archetti decorativi della facciata. Il rosone è fortemente asimmetrico, per l'interruzione della ghiera.

   
 
   
 

La facciata di S. Giacomo, giunta a noi intatta, ci offre la forte emozione del contatto quasi materiale con un mondo fatto di artigiane ingenuità, di esasperate simbologie, di reminiscenze barbariche e illuminazioni cristiane. L'interno, invece, esige uno sforzo di fantasia, tanto sono evidenti le manomissioni dell'epoca barocca. La pianta è ancora basilicale a tre navate, separate da colonne monolitiche con capitelli lavorati a sbalzo. Vi sono raffigurati mostri, figure antropomorfe e animali, in un disordine iconografico e simbolico di vigoroso senso pittorico.

   
 

Il tetto in origine era a vista e ciascuna navata terminava con un'abside decorata ad archetti. Anche i fianchi erano adorni di portali e di archetti collocati sotto la cornice di gronda. Poi la nudità dei muri di pietra e il tetto a capriata parvero poca cosa alle tendenze stilistiche tra la fine del '600 e del '700 e di qui lo scempio, visibile oggi nel tetto rifatto a volta, nella sopraelevazione del bellissimo tiburio a pianta ottagonale non equilatera, il cui peso, assieme alle altre sovrastrutture dei muri esterni e del tetto, squilibrò le stupende proporzioni dell'edificio, mettendone in pericolo la stabilità.

   
 

Dopo che Genova, con una politica lenta e progressiva, ma implacabile, acquisisce il borgo, Gavi diventa un avamposto genovese in mezzo ai feudi imperiali e trovandosi nel cuore delle strade attraverso cui si svolgono i traffici col Piemonte e la Lombardia, finirà per essere sempre al centro del fuoco incrociato tra i diversi contendenti, perché non sarà certo la sottigliezza delle pattuizioni, la meticolosità dei trattati, con cui da una parte e dall'altra si garantisce la sicurezza delle vie e l'esazione dei pedaggi, a far tacere gli appetiti degli uni e degli altri.

   
 
   
 

Tutta la storia di Gavi, dall'epoca del trattato con Tortona, è scandita sulle note della tromba di guerra. Per questo il castello, in origine non diverso da uno dei tanti manieri feudali, costruiti sì per far la guerra, ma anche per abitarci e attendere alle opere di pace, diventerà un baluardo di protezione, una fortezza intagliata nella roccia e ogni epoca aggiungerà al monumento le sue pietre, prestandosi il forte alle più disparate utilizzazioni. Sarà così la residenza ferrigna del principe e il luogo dove soggiorna e vigila il presidio militare a protezione dei paese e della strada, e per questo le sue mura si prolungheranno fino ad abbracciare e a stringere a sé il borgo. Sarà poi luogo di passaggio e di soggiorno, tanto per umili condottieri, quanto per i massimi protagonisti delle rapine internazionali, da Barbarossa a Napoleone e fulcro della resistenza genovese durante le guerre di predominio. Infine stabilimento penale durante le due guerre mondiali.

   
 
   
  Per questo il forte di Gavi è giunto a noi privo di attrezzature antiche e arricchito (o depauperato?) da tante sovrapposizioni architettoniche, ma la sua parte insostituibile e caratterizzante dello scenario incomparabile del borgo, ricco di storia e protagonista di rivolgimenti politici, la svolge tuttora. Se ci si arriva in primavera, si può vedere fiorito negli spazi erbosi, I'« anemone pulsatilla », un prodigio di madre natura, pianta rara negli Appennini liguri, degna dei massimo rispetto. Meglio però salirci a piedi, dalla stradina che dal paese si arrampica fin sugli spalti, per cogliere la monumentalità armoniosa del Forte, nelle simmetrie delle luci, nel disegno ordinato degli « arredi » architettonici, come i ballatoi, i parapetti, i comignoli, le specole agli angoli degli speroni, i camminamenti di ronda. Da lassù la vista si allunga fino alle radici della vallata, sul valico della Castagnola a sinistra, sulla selvaggia bellezza dei boschi dell'alta vai Lemme e i riposanti vigneti di Gavi. Ma soprattutto sull'antico borgo, con i tetti alla genovese, dominati dalla mole di palazzo Serra e dalla torre di S. Giacomo, sulla sua disposizione a fuso, lungo le due strade parallele che l'attraversano, sui campaniletti degli oratori e le contrade, che si congiungono a levante e a ponente, dov'erano le due porte del pedaggio.
   
 
   
 

Se poi ci si tuffa in mezzo a queste vie, mettiamo una domenica mattina, magari dopo aver fatto tappa un momento in uno dei tre oratori, dove ancora si canta il mattutino nel gregoriano che ognuno può immaginare, e subito dopo in un'osteria un po' fuori mano, a inzuppare in un bel mezzo litro di bianco un pezzo di focaccia « lunga » quanto un giornale, si possono scoprire (ed è il piacere più autentico) le tracce del passato.

   
 

Qui una colonna e un arco a tutto sesto affiorano sotto l'intonaco di una casa, là, fagocitato da un muro maestro, un capitello lascia intravedere le sue forme armoniose, oppure si dà del naso in un bel portale rinascimento, bugnato a punta di diamante o barocco, col monogramma di Cristo o l'edicola della Vergine, a ricordare che Gavi, come Genova, è città di Maria.

   
 
   
 

E poi i grandi cortili, i pozzi, le verande, le capaci cantine, e soprattutto il « Portino », unico avanzo delle torri di difesa che s'alzavano sopra le mura del secolo XII, bellissimo per la forma degli archi e l'elegante bifora del primo piano.

   
 

L'aria del « gregoriano » di prima, torna a ronzare nelle orecchie, e si ha voglia di andare a vederne un altro di questi oratori dove si è subito di casa, e può capitare di scoprire che i confratelli del 1975 hanno tirato fuori di tasca propria un bel po' di milioni, per ricostituire da cima a fondo il manto decorativo della « loro » chiesa, hanno restaurato a loro spese, infischiandosene della lesina dell'opera pia statale, i quadri e le statue avute in dono dalle famiglie nobili e si vantano di possedere il più bel Cristo della vai Lemme, attribuendone senza esitare la paternità al grande Gerolamo del Canto, quando altri, incauto e superficiale, aveva pronto sulle labbra il nome dell'immancabile Maragliano... Eccovi allora ricaduti da principio tra i fantasmi dei tempo e non vi meravigliate quando venite a sapere che i confratelli di una volta chiamavano a decorare le pareti e le volte dei loro oratori, i Ridolfi e i Carlone, anticipavano il grano ai contadini poveri e istituivano il monte di pietà, neutralizzando in questo modo l'azione nefasta degli usurai, che non dovevano mancare, dati i tempi... E davano vita all'ospedale e seppellivano i morti, salvo godersi, un giorno sì e uno no, il gran teatro processionale, con le cappe e i tabarri ricamati d'oro, quando dovevano scortare salmodiando un povero diavolo alla forca, o scongiurare i flagelli della meteorologia con cortei penitenziali, con i quali toccavano una dozzina di cappelle sparse per la campagna attorno al borgo, o portare in trionfo, nei giorni lieti, le loro madonne e i santi patroni. Facevano « casaccia », dando man forte, col sussidio del loro credo, ai maggiorenti del borgo e questa era la loro televisione, il loro teatro.

   
 
   
 

Gavi è un paese che vi conquista e se ci cascate non c'è più verso di sottrarsi al suo fascino sottile e antico. Se poi si ha la fortuna di un amico introdotto, può capitare di riuscire a vedere lo studio che fu di cinque artisti: i due fratelli Montecucco, il figlio di Luigi, Noberto, Santo e Tito Bertelli.

   
 

Ma qui occorre aprire una parentesi e dire che Gavi ha dato i natali, nel lontano 1764, a Bartolomeo Carrea. Figlio di povera gente, per interessamento dei marchesi Cambiaso, che ne avevano scoperto le attitudini alla scultura, si stabilì in città e divenne maestro all'Accademia genovese. Alla sua scuola, si formarono i fratelli gaviesi, Francesco e Luigi Montecucco, cucco, pittore il primo, scultore il secondo, che aprirono a Gavi la bottega di cui si dirà. Attratto dalla loro fama, grandissima nell'800, se ne veniva a piedi fino a Gavi da Arquata, un giovane pieno di entusiasmo per la pittura: Santo Bertelli. I Montecucco gli insegnarono a dipingere e Luigi gli diede in moglie la figlia. Da quel matrimonio nacque Tito, buon artista a sua volta. Ebbene, quella prodigiosa bottega, grazie alla intelligente sensibilità degli eredi, è rimasta miracolosamente intatta, con ogni cosa al suo posto, dal più umile vasetto per impastarvi i colori, al bozzetto della più prestigiosa cassa processionale, plasmato in terra cotta e schizzato a carboncino addirittura sulla parete.

   
 

Di bozzetti quello studio è pieno: dai volti barbuti dei profeti, su cui Santo studiava gli effetti della luce prima di tradurli in affreschi, ai gruppi lignei, che confraternite e fabbricerie commissionavano a Luigi e Norberto, fragilissimi e ben ordinati su mensole, ai calchi in gesso di sussiegosi antenati e di minuti ritratti ovali. E le pareti di questo atelier dalla volta altissima, perché le Assunte librate verso il cielo vi fossero ospitate col loro corteggio di angeli, e persino la porta, bisogna davvero vederle... Non c'è palmo di muro su cui quel sodalizio di poeti non abbia ombreggiato panneggi, schizzato profili, abbozzato trionfi di madonne e santi, con una vivacità di immaginazione e di inventiva, che se da un lato obbediva alle regole dell'accademia, dall'altro è sorprendente per la varietà dello stile. Si capisce, sostandovi, come qui, in questa stanza, dove si respira, assieme all'odore della polvere e della creta essiccata, una totale dedizione all'arte, si sia formata la personalità del più autentico dei quattro artisti: Santo Bertelli, grande ritrattista e acquerellista di fama, la cui pittura, avvicinandosi a quella dei Macchiaioli toscani, evitò le secche dell'accademia, per l'originalità dello stile, il largo respiro della poesia.

   
 

   
 

Gavi ha dintorni bellissimi ed è un vero peccato che il paesaggio sereno, ricamato di vigneti e di folte macchie verdi, sia guastato da nuove costruzioni, che nulla hanno a vedere con la cultura e la tradizione della vallata. Sarebbe così semplice guardare, non diciamo alle ville cinquecentesche di cui il territorio è ricco, ma i rustici sparsi per la campagna, ornati di logge e porticati, di scalette e poggioli che sono una vera grazia, e sul loro modello costruire le nuove case. Neanche per idea. Il fintorustico - i tetti verdi, grigi e neri, in materiale non laterizio sono l'ultima novità - imperversa anche qui in tutte le direzioni, altera l'equilibrio paesaggistico, distrugge risorse naturali, che, purtroppo, non si ricostituiscono più. E' dunque inutile salvaguardare il centro storico e recuperare al pubblico godimento i monumenti antichi, se poi si accetta la degradazione del paesaggio circostante. In questo modo monumenti importanti come il convento di Valle, dove all'inizio del '400 predicò San Bernardino da Siena, al quale i gaviesi dedicarono nel 1455, la statua che ancora oggi si vede nel coro della chiesa e dove si possono ammirare, nel porticato del chiostro, nella loggia del primo piano e nel loggiato accanto all'ingresso della chiesa, architetture conventuali tardo cinquecentesche di grandissima nobiltà, saranno a poco a poco soffocate da costruzioni di una banalità senza scampo e cesseranno di essere il rifugio sereno e il richiamo turistico che sono oggi.

   
 
   
 

AI processo di degradazione consumistica non sfugge neppure, in particolar modo a Gavi, l'arte della gastronomia, che da queste parti ha avuto un monumento grande come il raviolo. Certo, qui sono stati inventati i ravioli!

   
 

Gavi, essendo fin dall'alto Medioevo un nodo stradale di grande importanza, poteva disporre di merci, come l'olio e il grano, che altrove certo non abbondavano. Inoltre c'erano locande e bettole, probabilmente ad ogni angolo.

   
 

In una di esse, precisamente nell' « Hustaia du Ravio », cioè dei Raviolo, fin dal secolo XII, si cominciò a preparare quel « guanto ripieno di erbe preappenniniche e borragini e scarole, uova e " frumagiu d' crova " che dal nome degli inventori si chiamò Raviolo », (Giuseppe C. Bergaglio, 1972). Genova fece suo quel piatto, lo lanciò in Corsica, in altre parti d'Italia e persino nel Sud America. In Toscana e in Piemonte i ravioli diventarono in seguito gli « agnolotti », dall'uso di riempirli con carne d'agnello, ma tutto ciò esula dalla nostra storia. Serve se mai come spunto per divagare ancora su questa terra, dove leggenda e realtà, saggezza popolare distillata in motti, strambotti e proverbi, a volte piccantissimi, storie di caccia e buona tavola, andavano un tempo mirabilmente d'accordo.

   
 
   
 

Attorno a Gavi si produce un vino amabilissimo, fresco e giovane, il Cortese, l'elogio del quale lasceremo fare a più illustri palati.

   
 

Scrive Veronelli: « Dì Cortese e pronunci Gavi. Gavi è la patria di elezione per questo bel vino bianco, dai tenui riflessi verdognoli, di delicato profumo e di sapore secco con fondo piacevolmente acidulo, fresco e leggero »
(Guida all'Italia piacevole, Garzanti, 1968). E Mario Tobino: ...« subito, fin dal primo bicchiere fui conquistato dal "Gavi aereo, secco, un sapore personale, quel vago profumo di mandorla lo si avvertiva dopo, quando quel nettare era sceso dentro il petto. Ora di più m'incantava la sua trasparenza, un'acqua miracolosa. Mi entusiasmava e lo sentii subito fratello ». (da « Il Mondo », Milano, 25 febbraio 1972).

   
 
   
 

Sostanzialmente privo di industrie, Gavi vive oggi d'agricoltura, di commercio e in dipendenza dalle industrie della vicinissima valle Scrivia. È una specie di polmone residenziale tra le valli dello Scrivia e del basso Olba. La tutela del paesaggio e dei monumenti, assieme al recupero di certi piatti della cucina tradizionale, potrebbero attrarre qui le correnti del turismo, specialmente se si considera che oggi convergono su Gavi ben sette strade importanti. I dintorni, a parte gli aborti architettonici di cui s'è detto, bisogna scoprirli e gustarli pian piano. Il rilievo è estremamente vario, per le frequenti anse del fiume e le brusche impennate dei pendio. Il paesaggio sereno e la gente amabilissima. Dalla piazzuola dei santuario della Guardia, la vista spazia libera sulle colline dell'Alto Monferrato. Il Tobbio, che emerge nella catena degli Appennini, si staglia nitidissimo sullo sfondo. Sostarci in piena estate, quando la calura arroventa l'asfalto, è una vera delizia. Oltre il convento di Valle si stende la piana, chiusa al confine con Arquata dalla collina della Crenna. Qui il disordine edilizio ha prodotto i guasti maggiori, tuttavia, lungo l'arteria principale, si aprono vallecole di grande interesse paesaggistico e, in una di esse, si trova una delle più belle ville cinquecentesche del gaviese: la Colombara, in cui l'autorità padronale si manifesta in modo cortese e amichevole, per la grazia e la sobrietà delle linee architettoniche.

                                                                                                                                      

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